Sotto le stelle del jazz

di Vincenzo Benvenuto

Mi hanno proposto di esibirmi da remoto. Qualcosa me l’avrebbero data, eh? Ho risposto che avrei dovuto sentire lui prima di decidere. Dopodiché mi ci sono seduto di fronte e mi sono acceso il sigaro. Non ho dovuto metterci le mani sopra per capire che non avrei potuto chiedergli quel sacrificio. Il mio pianoforte, allevato a estenuanti esibizioni dal vivo e a ruffianerie civettuole della cassiera del Cotton Club, si è rifiutato di prestare il fianco a questa profanazione. Per pochi euro, poi! Senza contare il fatto che le mie dita, oltre alle sterminate ore di esercizio giornaliero, hanno sempre avuto bisogno dell’incontro con persone ed esperienze per poter disegnare musica e trarne fuori emozioni. Ho sorriso comprensivo al mio pianoforte color mogano…perchè il mogano dà più il senso dell’artigianalità della musica rispetto al nero. Poi, prima di uscire dalla stanza, ho accarezzato quel graffio sulla tastiera figlio di mille traslochi:«E poi dici che non è vero che io e te siamo due maledetti snob!»

Non è che io m’atteggio a uomo d’altri tempi. È che proprio non mi confà questo tempo veloce e privo di spessore. Per non parlare poi della musica. Vuoi mettere il portato evocativo di giganti come Duke Ellington, Cole Porter con gli interpreti di ‘sti tempi grami? Poi, certo, c’è anche il mio gusto per le espressioni ricercate così come per il tabacco da fiuto, ma questo fa parte delle preferenze personali e non di un abito esteriore. E lasciatemi passare pure la Fiat 750 special senza la quale non avrei dato la caratterizzazione d’antan alle mie consegne per la Just Eat. Pensate che alcuni clienti chiedono espressamente di essere serviti a domicilio dal “tipo con la macchina d’epoca.” L’altra sera, mentre stavo consegnando delle pizze a un giovane della Roma bene, mi sono imbattuto in un bel mezzacoda. Se ne stava lì, piazzato vicino a un termosifone, tutto ricoperto da cornici e ammennicoli vari. Proprio non ce l’ho fatta a non guardare quel pianoforte con pena frammista a rabbia. Anche il cliente dev’essersene accorto, tanto che mi ha chiesto se mi piaceva.

«Come porta oggetti, mi sembra decisamente sprecato.» Voleva lasciarmi qualche euro di mancia. Ho rifiutato, malgrado i soldi mi servano come il pane. Io non prendo denaro da chi maltratta la musica. Ho accettato di fare il rider. Se non posso tenere le serate, tanto vale svolgere qualche lavoretto che m’impedisca di raccogliere l’agonia del mio pianoforte con note sempre più cupe per la solitudine. Stasera fa un freddo che ci vorrebbe mezz’ora di stretching per le dita prima dell’esibizione al Cotton Club. Anche la mia Fiat 750 special sembra avere un ritmica più da marcia che da swing. All’improvviso incappa in una pausa troppo lunga per far immaginare un qualunque seguito. Nonostante il covid che sembra rimbalzare le persone quanto più lontano possibile, due tizi si avvicinano. Mi vedono intento a spingere la mia Fiat 750 special.

«Non mi ha mai tradito» – mi viene da giustificarla al cospetto di quei due ragazzi generosi. Loro mi guardano probabilmente convinti che la macchina non vada per mancanza di benzina. D’altronde, da un povero disgraziato che fa il rider…! Ciononostante, quasi senza parlare per evitare, malgrado le mascherine, qualsiasi possibilità di contagio, iniziano a spingere assieme a me. I miei sforzi e i loro li avverto confluire nel più classico accordo di tredicesima. Mentre spingo, le dita infreddolite le sento premere sulla carrozzeria come su un pianoforte con il pedale di sordina innestato. Adesso la pressione si fa più forte e il suono sempre più debole. Un unico, improvviso singulto al centro del petto. Il mio indice non trova più resistenza: disegna note su un palcoscenico tornato a riempirsi di fumo di nuvole e di luci di stelle senza alcun logo della Just Eat.

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