Il dolore offeso da un selfie-trofeo

di Rossella Graziuso

Il desiderio di “esserci” ad ogni costo, calpestando il dolore più forte al mondo: quello legato alla morte di una persona cara. Il lutto del cuore oscurato da quello della società, specchio della nostra smania di apparire. Alle spalle non un paesaggio mozzafiato ma la bara di Maurizio Costanzo. Cosí, in pochi secondi, la morte diventa virale e chi ha scattato quella foto accanto alla “vedova famosa”, un fenomeno da analizzare e condannare.

“Nell’era de social network, l’uomo ha di fronte a sé due sfide: non perdere il contatto con la propria intimità e non perdere il contatto con l’Io più profondo” – spiega la dottoressa Anna Lambiase psicologa e psicoterapeuta. “Come possiamo notare dagli ultimi fatti di cronaca, sembrerebbero sfide perse a tavolino. Guardiamo cosa è accaduto al funerale di Maurizio Costanzo. Viene chiesto un selfie alla moglie come se fossimo al bar. Dietro quel gesto si cela la perdita della sfida di questo decennio. La morte, nel mondo occidentale, rappresenta un tabù enorme. Cerchiamo a tutti i costi di sconfiggerla e allontanarla dai nostri pensieri e dalle nostre azioni , mettendoci in contatto con la paura e pur di non sentirla, pur di non cogliere il significato più profondo di questo passaggio, la esorcizziamo con gesti e parole che sembrerebbero volerci allontanare dal “quí ed ora ” . Dietro quel selfie, dietro quel gesto così anacronistico rispetto al contesto, vi è tutta la più grande paura dei tempi odierni: quella di percepire il dolore piú profondo, di entrare in contatto con emozioni pure ed antiche. Un selfie che narra e dichiara la sconfitta di un’epoca, ovvero la paura di sentire”.

Non dimentichiamo che la “camera ardente” è un luogo di raccoglimento, dove ognuno ha il diritto di rimanere solo con sé stesso e che, dietro quegli occhiali scuri, si nascondeva il dolore intimo e privato di una donna che per un attimo avrà dimenticato la sua popolarità, sentendosi semplicemente sola e fragile al centro di un universo “sordo” che calpesta la sofferenza più profonda in cambio di uno scatto-trofeo che non ci rende assolutamente vincitori ma perdenti e “schiavi” di un sistema talvolta cinico e perverso.

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