di Daniela Pastore
Un effetto collaterale del Covid? La fine dell’urbanizzazione. O, almeno, lo stop alla crescita dello spostamento verso le grandi città, una tendenza in corso fin dai tempi della rivoluzione industriale. La crisi del coronavirus
ha reso ancor più evidenti alcune delle fragilità che caratterizzano le aree urbane. In questi mesi, nel dibattito pubblico, si è parlato molto ad esempio del problema dell’inquinamento atmosferico e del traffico automobilistico, dell’acuirsi della vulnerabilità di alcuni gruppi specifici della popolazione urbana quali migranti e senza fissa dimora, del divario digitale, della distorsione e inacessibilità del mercato dell’affitto, del rischio insito nello sprawl, della carenza di spazio pubblico sicuro e inclusivo. Di fronte a ciò, sempre più persone sognano una nuova dimensione di vita e guardano alla campagna come la nuova scommessa green. Le pandemie hanno da sempre avuto un fortissimo impatto sul genere umano, soprattutto nelle zone urbane. Ad esempio, la peste nera diffusasi nel Medioevo in Europa ha dimezzato la popolazione di Firenze. Questo fattore ha destabilizzato gli equilibri del feudalesimo tanto che, secondo alcuni storici, avrebbe dato il via al periodo del Rinascimento, con nuovi pensatori concentrati maggiormente sulla vita terrena piuttosto che su quella nell’aldilà. O, ancora, la creazione della rete fognaria londinese, che ha portato alla realizzazione dei famosissimi argini del Tamigi, fu costruita in risposta alla devastante pandemia di colera del 1850”. Attualmente, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Alcuni paesi, come ad esempio il Giappone, si stanno addirittura avvicinando a livelli di urbanizzazione del 90%, mentre quelli in via di sviluppo, come l’India, hanno appena superato lasoglia del 35%. In una società industrializzata, abitare in una città offre una serie di vantaggi culturali ed economici: accesso più facile al mercato del lavoro, migliore istruzione, prezzi delle abitazioni di norma meno costoso e riduzione di durata e i costi del pendolarismo. Tuttavia, qualcosa sta cambiando.
I primi segnali di questo trend sono già visibili in città del mondo occidentale, come New York, Londra e Parigi, che hanno visto fuggire fino al 10% della popolazione durante la prima ondata della pandemia. A Manhattan si sta già registrando un calo degli affitti, mentre negozi, teatri e ristoranti restano chiusi e il tasso di criminalità è in aumento, tutti fattori che rendendo la fuga delle persone più abbienti quasi come una profezia che si autoavvera”. Per molti ha dunque perfettamente senso lasciare, ad esempio, una città come Parigi, soprattutto visto che l’economia si sta spostando sempre più sul digitale, la cosiddetta “Zoom economy”. “Ci si può trasferire, a parità di prezzo, da un appartamento di due camere da letto nel X arrondissement a un castello rurale in periferia e tornare a Parigi una volta alla settimana prendendo un treno TGV”. Ad avvalorare la tesi, basti considerare che il più recente progetto di ricerca di un guru dell’architettura internazionale come Rem Koolhas, con tanto di mostra al Guggenheim di New York, ha come titolo “Contryside, The Future”. La suggestione è affascinante e trova forza nella crisi climatica che stiamo vivendo e anche in quei colori, suoni e odori della natura che questi giorni di stop del traffico ci hanno permesso di riscoprire, perfino nelle nostre giungle d’asfalto. Grandi emergenze sanitarie come l’attuale legata al Coronavirus spingono gli scienziati ad interrogarsi sul rapporto fra diffusione di agenti patogeni e cambiamenti climatici. Gli scenari sull’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute sono evidenti: è arrivata l’era delle malattie causate dai cambiamenti climatici e gli effetti sulla salute sono molto complessi. I cambiamenti climatici, le modifiche ambientali nell’ambiente urbano, la globalizzazione, l’intensificazione degli scambi commerciali e dei viaggi contribuiscono a modificare la velocità, oltre che la dinamica, attraverso la quale possono diffondersi malattie trasmissibili. Il clima sta cambiando ora. L’imperativo deve essere: agire ora per prevenire e mitigare. Di fronte a tutto ciò, cresce la domanda di case in campagna e la tendenza a ritornare alle case di famiglia, a ripopolare i vecchi borghi. Il ricorso sempre più massiccio allo smart working e la paura del virus stanno spingendo molte persone a ripensare alle proprie esigenze abitative e così le proprietà rurali stanno registrando un’impennata davvero considerevole. I piccoli centri potrebbero costituire una valida alternativa per garantirsi un ambiente di elevato standard di vivibilità grazie a spazi ampi e aperti, a prezzi decisamente più contenuti delle grandi città. E per chi invece non è in condizioni di lasciare la città? Si auspica l’attuazione di nuove strategie urbane, una nuova visione collettiva per le nostre città in grado di renderle più resistenti e resilienti nei confronti di possibili crisi.