Salute e sicurezza sul lavoro. uno sguardo storico (prima parte)

Da Ramazzini a Devoto: alle origini del concetto di tutela della salute dei lavoratori

di Antonio Malangone

«Bisogna esaminare le malattie di questi lavoratori e proporre: precauzioni e rimedi per la tutela della loro salute»[1].

Così esortava nel 1700 Bernardino Ramazzini (1633-1714) nel suo De morbis Artificum Diatriba (Opuscolo de’ mali degli artefici), stimato come il primo trattato sulle malattie degli “artefici” (i lavoratori), tanto più significativo nel proposito di andare oltre la disquisizione teorica, per individuare «precauzioni» e «rimedi» a vantaggio della «tutela della loro salute».

Non possiamo non riconoscere la modernità di una tale prospettiva di indagine, in cui si anticipano i parametri che regolano le attuali disposizioni in materia di salute sul lavoro, calibrate su quel valore cautelare già insito nel monito settecentesco.

Proprio le osservazioni del Ramazzini – da vagliare anche nel loro portato lessicale, incentrato sui lemmi “precauzione”, “rimedio”, “tutela” – inducono a riflettere sulla pertinenza storica della questione “salute e sicurezza sul lavoro”: tema dibattuto fin da tempi immemori, in ragione della sua carica esiziale.

Notabile, in proposito, quanto previsto dalla legge mosaica: «Quando costruisci una casa nuova, farai un parapetto intorno alla tua terrazza, per non attirare sulla tua casa la vendetta del sangue, qualora uno cada di là» (Deuteronomio 22:8); un avvertimento che sembra preludere alle norme sui parapetti sancite dall’art. 24 del D.P.R 164/1956 e dall’art. 126 del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, anticipate per altro – come vedremo nei prossimi interventi – dalle direttive imposte dal Brunelleschi agli operai impegnati nell’erezione della cupola del duomo di Firenze.  

Ancora, l’indicazione riportata in Esodo 21:33, 34 («Se un uomo scoperchia una fossa o la scava lui stesso e non la copre, e un toro o un asino ci cade dentro, il proprietario della fossa deve pagare un risarcimento: deve rimborsare il valore dell’animale al suo padrone, e l’animale morto diventerà suo») ci appare come l’antenata della disposizione “in difesa delle aperture” ratificata dal su citato “Testo Unico” all’art.146.

E potremmo continuare con altri esempi (una tentazione da cui rifugiamo per non tediare oltremodo) che, abbozzando la possibilità di un ancoraggio storico nel quadro legislativo in materia di salute e sicurezza sul lavoro, permettono di confermare come quello della tutela sia un problema avvertito da sempre.

Recuperando ancora qualche consiglio biblico, riprendiamo il passo dell’Ecclesiale 10:9: «Chi estrae pietre può farsi male, e chi spacca legna deve starci attento».

Tale preoccupazione è forse la premessa più calzante a una disamina sulla dimensione storica del fenomeno, dove il concetto di sicurezza si coniuga con la nozione di salute, facendo di questa il perno di un’idea di benessere intesa a vantaggio dei lavoratori.

Del legame tra salute e lavoro aveva acquisito coscienza già Ippocrate, il quale consigliava ai suoi discenti di valutare il quadro clinico dei propri pazienti alla luce delle loro mansioni lavorative: un approccio, questo, destinato a tracciare – seppure in maniera graduale – il profilo del medico del lavoro, incarnato proprio in quel Bernardino Ramazzini citato all’inizio, non a caso fregiato del titolo di “Terzo Ippocrate”.

L’onorificenza spettata al medico di Carpi al momento della sua elezione a membro dell’Accademia Cesareo-Leopoldina dei “Curiosi della Natura” (nel 1693), se da un lato interviene a ottimizzare la sua discendenza concettuale dal padre della medicina occidentale, dall’altro induce a considerare una successione dottrinale che spinge a interrogarsi sull’identità del “secondo Ippocrate”, riconosciuto in Thomas Sydenham. Non citiamo a caso il medico inglese, dal momento che proprio nella sua Opera omnia medica (pubblicata a Ginevra nel 1716) trovano spazio le Constitutiones di Ramazzini, in cui viene sancita la dipendenza tra malattie epidemiche e condizioni ambientali, comprese quelle lavorative.

Ma prima di dare il giusto spazio alle osservazioni del Ramazzini, vale la pena citare altre importanti premesse, come quella fissata nel XVI secolo dagli studi dello svizzero Paracelso (1493-1541) e del tedesco Giorgio Agricola (1494-1555) sulle malattie respiratorie dei minatori. In particolare, l’Agricola nel De Re Metallica, affrontando le patologie polmonari riconducibili alla silicosi, forniva suggerimenti in merito all’adozione di “mascherine” di protezione delle vie aeree.

Sarà interessante osservare come proprio lo studio delle condizioni di salute dei minatori abbia fissato i prodromi per una embrionale medicina del lavoro, come comprovato dal passaggio introduttivo al De morbis Artificum Diatriba del Ramazzini:

«Qualunque tipo di materiale scavino, si procurano malattie gravissime che sfuggono molto spesso a tutte le cure […]; non è affatto sicuro che possa ritenersi un ufficio pietoso somministrare a questo tipo di persone un ausilio medico e prolungare la loro vita nella miseria. Ma poiché molto spesso dalle miniere di metalli vengono a principi e mercanti notevoli guadagni e l’uso dei metalli è assolutamente necessario per tutti i mestieri, perciò bisogna esaminare le malattie di questi lavoratori e proporre: precauzioni e rimedi per la tutela della loro salute»[2].

Certamente, alle nostre menti educate a una prospettiva ideologica di impronta umanitaria, le parole del Ramazzini possono suonare stridule nella loro implicazione utilitaristica: la salute dei lavoratori è intesa in funzione di una conservazione di quella forza lavoro che garantisce la produzione di ricchezza. Tuttavia, l’assenza di una motivazione ideale – “filantropica”, per così dire – non sminuisce l’importanza dello studio del Ramazzini, tanto più valido per l’accento posto alla promozione non solo di terapie di cura (i «rimedi»), ma anche di un’azione di prevenzione (le «precauzioni»).

È questa la base su cui si fonda la medicina del lavoro.

È dalle riflessioni del Ramazzini sulle condizioni dei minatori – i quali «qualsiasi materiale scavino si procurano malattie gravissime» –, come anche degli «operai vuotacessi» – resi «privi per metà della vista o totalmente ciechi» – che nasce il concetto di tutela della salute dei lavoratori.

È con il Ramazzini che, per la prima volta, la medicina occupazionale primeggia su quella clinica, rivelando al mondo l’insalubrità di diverse condizioni lavorative.

In questa prospettiva ben comprendiamo perché, indipendentemente dalle motivazioni di partenza, il trattato del Ramazzini abbia fissato una pietra miliare nella storia della medicina del lavoro: il suo “occhio clinico”, infatti, risulterà condizionante per coloro che interverranno successivamente, preparando la strada alle disposizioni ottocentesche.  

Se, come accennato, la salvaguardia della salute dei lavoratori è un’esigenza che ha attraversato i secoli, questa diventa nel corso del XIX secolo una vera e propria urgenza, direttamente proporzionale all’incremento del fenomeno dell’industrializzazione.

La possibilità di valutare l’attenzione posta alla questione è offerta, tra l’altro, dall’avvio delle prime indagini, anche in Italia, sulle condizioni sanitarie dei lavoratori, a cominciare da quelle degli operai minorenni.

Così, nel 1840 Giuseppe Sacchi (1804-1891) avviò, a Lecco, un’inchiesta sulla salute delle bambine «addette ai filatoj di seta», seguita da uno studio su quella dei «fanciulli impiegati nelle officine di ferro» e di quelli «addetti ai lavori del rame»[3]. Entrambe le ricerche hanno tracciato un quadro a tinte fosche, segnato dalle ombre di malattie precoci che vanno dagli «indurimenti ghiandolari, alla scrofola, alla rachitide ed ai tumori freddi» per le bambine, dalle «flemmassie» ai problemi dermatologici per i “fanciulli”.

Riportiamo per intero le osservazioni fatte sulla salute delle piccole operaie, dal momento che permettono di valutare la continuità della linea interpretativa tracciata dal Ramazzini, verificando la correlazione tra malattie e condizioni di lavoro, a favore di una nuova visione sociale del problema:

«Le persone addette ai filatoj di seta che sono le più numerose, presentano in generale un colorito pallido, membra gracili, muscoli senza energia, una statura poco elevata ed un temperamento eminentemente linfatico. Vanno, quindi soggetti ad indurimento ghiandolari, alla scrofola, alla rachitide ed ai tumori freddi. Simili malori non dipendono dalle sostanze in cui trovansi a contatto, ma da molte altre cause. Il levarsi di gran mattino, il lavoro protratto fino sino a notte avanzata, massime nell’inverno, in cui si lavora a luce artificiale e in luoghi chiusi, la vita eccessivamente sedentaria ed in posizioni incomode […] sono tutte cause… che influiscono a produrre il mal essere, che rende infermicci quelli che si sagrificano a questo monotono mestiere»[4].

Una diversa prospettiva di indagine, tesa a chiarire le implicazioni tossiche dei materiali maneggiati dagli operai, è quella che nel 1866 venne condotta a Rimini da un gruppo di medici impegnati a valutare le conseguenze dell’uso del fosforo bianco per la produzione di fiammiferi. Il risultato di tale indagine è tanto più interessante, dal momento che indusse gli esperti a considerare la possibilità di soluzioni alternative, come l’impiego di “paste” ritenute meno pericolose.

Sono queste solo alcune delle ricerche condotte in Italia, nel corso dell’Ottocento, sullo stato di salute degli operai; studi che, al di là della loro potenziale valenza pratica, hanno il merito di attestare il proposito di affrontare un problema avvertito come improrogabile: una volontà, questa, testimoniata anche dalla nascita di giornali di settore, come la rivista “Igea: Giornale di igiene e medicina preventiva”, fondata agli inizi degli anni ’60 da Paolo Mantegazza (1831-1910), e che vide tra le sue firme anche quella del medico e criminologo Cesare Lombroso (1835-1909), autore nel 1865 di un articolo-compendio delle conoscenze fino ad allora acquisite sui danni provocati dal lavoro industriale, ma anche agricolo. Lo stesso Lombroso, del resto, partecipò al dibattito sulla insalubrità delle risaie, dedicando uno studio al rischio della pellagra, da lui ricondotto a un vizio alimentare.  

A proposito di prolusioni a carattere esplicativo non possiamo non segnalare i precoci contributi offerti da Andrea Bianchi (1810?-1841)[5] e, soprattutto, da Giacomo Barzellotti (1768-1839), il primo a tentare di riformulare le teorizzazioni del Ramazzini in conformità al mutare dei tempi, lasciando già emergere quello che sarà l’orientamento in senso sociale della medicina, come ci rivela la sua enunciazione di intento: «Tento io…  […] d’indagar seriamente, giuste le deboli mie forze, e la scarsezza dei miei lumi, sulla influenza della povertà nello sviluppo, espansione, e riproduzione delle malattie epidemiche e contagiose; e viceversa su quella di dette malattie nella povertà…»[6].

Nella disquisizione accademica Della influenza della povertà sulle malattie epidemiche (1839) Barzellotti riesamina le malattie connesse ai mestieri tradizionali, auspicando un approfondimento degli studi al fine di «misurare e giudicare della rettitudine dei mezzi igienici… che capaci esser possono per avventura a prevenirli [i mali sul lavoro]»[7].

Seppure non espressamente citato, l’invito del Barzellotti sembra aver trovato consenso nello sforzo compiuto da Enrico Nobile de Betta (1824-1859), il quale, con la sua dissertazione dottorale Sulle professioni considerate come causa di malattia del 1849, ha proposto una lista delle principali modalità che segnano il rapporto causale lavoro-malattia.

Nella classifica del De Betta troviamo indicati, insieme agli impieghi scorretti delle potenzialità organiche e muscolari del corpo umano, l’inspirazione di polveri e l’uso di materiali tossici, ma anche la durata del lavoro e il luogo dove viene svolto. Da sottolineare è inoltre l’accento posto sull’imputabilità degli stessi operai, legata a precisi fattori penalizzanti, come l’età e gli stili di vita:

«Le professioni per molti differenti modi influiscono sulla salute dell’uomo. Questi modi d’azione si riferiscono od alla maniera di lavoro in quanto richiegga movimenti o limitati o violenti, posizioni anguistiante od inattiva; o sono radicati nella natura dei materiali adoperati, del luogo ove compionsi que’ lavori degli accidenti che sono vincolati a certi mestieri; oppure sono in relazione alla età, sesso, costituzioni, abitudini dell’individuo che la esercita»[8].

Ancora più innovativa l’osservazione contro le professioni sedentarie, accomunate, a suo parere, dalla «noja di un lavoro limitato alla ripetizione di certi movimenti d’uniformità desolante, nell’angusto recinto di una sala»[9]: «Nelle filature di cotone si rimarcò questo fatto produrre un languore somigliante alla nostalgia che accora il soldato pel desiderio della patria lontana, certamente perché, se l’orizzonte angusto d’un laboratorio a nessuno lungamente conviene, meno poi converrà ad operaj, che per ridursi a lavori simili, abbandonano il grand’aere della campagna»[10].

Proprio dalla consapevolezza dell’abbrutimento causato dalla ripetitività propria del ciclo produttivo industriale – che porta con sé anche i rischi derivati dalla durata del lavoro (costringendo «il povero operajo a consumare più ore, che le sue forze non comportassero, in un lavoro, che diveniva penoso appunto per la sua troppa durata»)[11] e dall’impiego di macchine che sviliscono l’operaio nelle sue «facoltà pensanti» – il De Betta muoveva il suo sprone a favore di interventi risolutori:

«Ma poiché appunto è l’abbrutimento di un travaglio monotono che isterilisce l’intelligenza loro, è debito dei fabbricanti attorniarli di maggiori cure. Gema la società sulla mala influenza di certi mestieri, quando questa vi è così legata da non poternela sceverare; ma quando i mezzi preservativi esistono, e con poco dispendio possono adottarsi, allora deve levar la sua voce, usare de’ suoi dritti, e chiedere stretto conto della sorte de’ figli suoi»[12].

Senza dilungarci troppo, merita menzione un altro caposaldo – almeno sul piano teorico – della letteratura d’igiene: il Dizionario di Igiene Pubblica, da considerare nella sua valenza di sintesi dell’esperienza maturata da Francesco Freschi in qualità di medico del Consiglio Provinciale di Sanità a Genova (1808-1859); particolarmente importante è il riferimento ai primi sforzi compiuti per rendere obbligatoria l’adozione di misure tese a migliorare l’esperienza di fabbrica, i cui frutti saranno alcune iniziative promosse dagli stessi imprenditori.

L’attività a favore di una sensibilizzazione sulla questione della salute dei lavoratori si intensifica nell’Italia post unitaria, come ci testimoniano gli scritti a carattere divulgativo del già citato Mantegazza (come l’Igiene del lavoro del 1881), nonché il saggio di Giovanni Boeri, Le malattie professionali in rapporto al lavoro eccessivo ed alle cause reumatizzanti, pubblicato nel 1884, dove viene ribadita la dimensione sociale del problema: «Gli operai cercano di compensare colla maggiore produzione, e col numero maggiore di ore di lavoro, la esiguità della mercede, ma il lavoro li avvelena e li consuma lentamente»[13].

L’anno prima veniva dato alle stampe il libretto di Tommaso Casali Ricordi igienici intorno ai più comuni mestieri: un testo la cui valenza sta nella capacità di anticipare i tempi, puntando a creare quella che oggi chiamiamo “la cultura della salute e della sicurezza dei lavoratori”. L’autore, infatti, si rivolge direttamente agli operari, con un intento formativo a carattere preventivo; in più dedica, nell’ultimo capitolo, «Poche parole ai Direttori e Proprietari degli stabilimenti industriali», invitandoli a «porre ad effetto ogni innovazione che sia utile non solamente al progresso ed al più economico servizio dell’industria, ma all’igiene eziandio dei lavoranti stessi relativamente alle macchine, agli apparecchi di illuminazione, di riscaldamento e di ventilazione; ed a tutti i mezzi che sono acconci a rendere meno pericolose le sostanze manipolate»[14].

Tali opere emergono da una nutrita schiera di contributi medici, orientati in direzione sia di un approfondimento sulle malattie professionali sia di una responsabilizzazione sul piano legislativo. 

Tuttavia l’Italia ancora arrancava nel definire una presa di posizione in favore di una regolamentazione in grado di garantire la salubrità dei luoghi di lavoro, ponendosi in coda rispetto a realtà più innovatrici, come la Francia (che poteva beneficiare delle leggi napoleoniche sulla classificazione degli ambienti di lavoro insalubri) e l’Inghilterra, dove il contributo statistico sulla mortalità professionale risultò fondamentale al fine di pungolare l’azione di governo (a cominciare dalla legge del 1833 che sancì la nascita della figura dell’ispettore delle fabbriche).

Eppure, anche in Italia non sono mancati lavori di documentazione statistico-sociale, come quello varato tra il 1872 e il 1874 dal ministero degli Interni nel proposito di registrare le condizioni di salute degli operai delle fabbriche. Purtroppo questa inchiesta preventiva si scontrò con una serie di difficoltà legate sia alla resistenza dei datori di lavoro nel fornire informazioni sulle reali condizioni degli opifici sia alla modalità di impostazione dei questionari, già criticata dal contemporaneo medico comasco Serafino Bonomi. Questi fu particolarmente dubbioso in riferimento alla «domanda del comma C, riguardante la mortalità media degli operai per ciascuno stabilimento durante l’ultimo decennio»; per Bonomi non era agevole rispondere a tale quesito, a causa di una procedura viziata dall’omertà: «I nostri operai, sian maschi sian femmine, non appena cadono infermi, o ritornano alle loro case o cercano asilo negli ospedali, di modo che nulla di più si sa di loro, essendovi pochi che si curano di informarsene»[15]. Una condotta, questa, confermata anche dalle Notizie statistiche sul lavoro nei principali stabilimenti di Torino (1873): «gli operai… se cadono ammalati… ritornano alle loro case…, ovvero si fanno curare a domicilio in città o ricorrono agli ospedali»[16]; mentre i direttori degli stabilimenti, indipendentemente dalla durata della malattia, sono pronti nel sostituirli, costringendo gli operai «a cercare lavoro altrove»[17].

Ma, al di là dei limiti del sistema di indagine, l’inchiesta ministeriale offrì la possibilità di una prima, sebbene imperfetta, mappatura delle malattie professionali, lasciando anche emergere situazioni positive, indicate quali esemplari per una riqualificazione delle procedure di lavoro. È questo il caso della fabbrica torinese di fiammiferi De Medici, dove l’assenza di casi di necrosi fosforica del mascellare venne imputata all’introduzione dell’«uso del fosforo amorfo a vece di quello bianco», oltreché all’abitudine di mantenere nello stabilimento «la più possibile e maggiore ventilazione»[18].

Proprio circostanze come questa, evidenziando per contrasto lo stato emergenziale, indussero i commentatori del sondaggio a prendere coscienza della reale portata del problema, proponendo un criterio risolutivo assolutamente innovativo e quanto mai precorritore delle più attuali strategie operative: 

«Il miglioramento delle classi operaie è certamente il più grande e il più urgente dei problemi dei nostri giorni, ma la sua soluzione non è puramente una questione amministrativa e sociale, di cui si possa venire a capo senza il concorso dell’operaio. Questi per contro deve avere parte attivissima nell’opera della sua rigenerazione, collo spirito d’ordine e di sobrietà, e con una intelligente docilità per profittare degli sforzi che oggigiorno si fanno da ogni parte per innalzare il livello della sua educazione e istruzione»[19].

È questo, in un certo senso, il possibile incipit per un riscatto sociale delle classi operaie che passa anche per la conquista di condizioni lavorative più salubri, la cui portata si misura in raffronto con il più ampio movimento per una legge sull’igiene pubblica promosso da Agostino Bertani e che portò alla riforma sanitaria Crispi-Pagliani del 1888. 

Del resto, è proprio negli anni ’80 del XIX secolo che l’indagine medica venne infervorandosi in senso sempre più sociale, come testimoniato anche dall’orazione inaugurale tenuta all’Università di Genova l’11 novembre 1882 dal medico e docente Edoardo Maragliano, emblematicamente intitolata La medicina nei suoi rapporti con la medicina sociale.

A partire da quel giro di anni, lezioni universitarie e congressi medici assunsero «una intonazione a carattere sociale; vale a dire che, a fianco ai contributi scientifici puri, affiorano studi di medicina professionale e sociale»[20].

Esemplare, in proposito, il ricordo del giovane Guido Giglioli (1875-1939):

«Da pochi giorni si erano iniziati in Firenze i corsi della Università popolare e l’ampia sala dell’antico palazzo Bardi era affollata da un pubblico vario, di industriali, di operai, di impiegati, di medici e di studenti; la parola chiare e concisa del clinico spiegava e commentava le varie forme di intossicazione professionale e il silenzio religioso e l’attenzione raccolta mostravano quanto l’argomento interessasse ognuno e quante riflessioni germogliassero dal seme della scienza così gettato»[21].

Siamo all’avvento del nuovo secolo e il tema della salute dei lavoratori trovava nuova linfa vitale, grazie anche all’impegno didascalico di personalità autorevoli, appartenenti tanto al mondo accademico come a quello ospedaliero, nonché di impiegati dei comunali uffici di igiene o di semplici medici condotti.

Tra le nuove file di appassionati alla medicina del lavoro spicca la personalità di Gaetano Pieraccini (1864-1957), dalle cui parole possiamo attingere il senso della svolta medica in atto:

«Accanto alla medicina individuale, alla così detta “Medicina pratica” è spuntato e rapidamente cresciuto un nuovo ramo di Scienze mediche, che per l’indole sua, e teoria e pratica, si chiama “Medicina sociale o politica”… […] [che] sublima… l’opera nostra di sanitari; ci allontana dai singoli, e fa di noi altrettanti benefattori della collettività umana […] Che cosa è questa “Medicina sociale o politica”? È un connubio felice dell’igiene e della clinica; trova il suo materiale di studio negli ospedali e nelle officine, tra i lavoratori dei boschi e dei campi; tra i lavoratori delle miniere e del mare; fra i lavoratori del braccio e del pensiero; il suo gabinetto di studio non è il tanto tranquillo laboratorio dello scienziato quanto e più il rumoroso opificio operaio; si occupa delle moltitudini lavoratrici ed ha valore preventivo più che curativo; i medicinali, anziché nei barattoli della farmacia, si trovano di preferenza nei bilanci dello Stato; e la ricetta, piuttosto che contemplare l’organismo dei malati, contempla l’organismo sociale»[22].

Così il Pieraccini scriveva a premessa del suo trattato Patologia del lavoro e terapia sociale (1906) con cui si suggellava la nuova era della cognizione del nesso lavoro-salute, incentrata anche sul merito dei «cultori» e sulle opportunità operative loro offerte. Commentava infatti il medico toscano: «La patologia del lavoro ha bisogno dei suoi particolari cultori, e questi a loro volta necessitano di particolari metodi e mezzi per distillare dal campo della operosità umana quanto appunto di patologico porta con sé il lavoro, ricercandone le cause ed additandone i rimedi»[23].

Significativo il ricorso alla locuzione «patologia dei lavoratori», che restituisce il proposito di tracciare un più complesso disegno nosografico, impostato dal medico sulla scorta di una serie di interrogativi:

«Perché la percentuale dei sopravvissuti all’età di 70 anni segna le cifre più basse per la gente che lavora fino ad aversi un minimum che oscilla fra i 25 e 30 per alcuni lavoratori, e dà il massimo per i frati, i preti, capitalisti e proprietari? […] Quali sono le ragioni… […] Del più tardo e del minore sviluppo di altezza ed ampiezza toracica negli operai in confronto dei proprietari? […] Perché la senilità è precoce nei poveri lavoratori»[24].

Un incalzare di domande su cui si andava modellando la nuova medicina del lavoro, la quale, pur proseguendo nel solco della tradizione ramazziniana, cominciava in quegli anni ad acquisire la portata di una moderna disciplina scientifica.

In questa prospettiva trova ragione la fondazione nel 1907 (ad opera dello stesso Pieraccini) della rivista “Il Ramazzini. Giornale italiano di medicina sociale”, recante il sottotitolo rappresentativo: Patologia del lavoro. Tale dizione echeggia nel titolo dell’articolo inaugurale, Dalle “malattie degli artefici” alla “patologia del lavoro”, firmato dal Giglioli.

Questi, nella sua autorevole qualifica di assistente del Regio Istituto di Clinica Medica di Firenze, sollecitava a un perfezionamento della ricerca in senso eziologico a vantaggio dell’individuazione di soluzioni igieniche fattive, spingendo ad approfondire le conoscenze circa «l’elemento predisponente e localizzante della malattia»; quindi chiosava:

«con provvedimenti di legge occorre combattere un nemico più pericoloso perché meno definibile: la predisposizione morbosa professionale […] l’alimentazione, il riposo e il metodo di lavoro vanno studiati dal medico con la stessa attenzione che gli effetti del piombo e dell’arsenico nelle industrie. […] Dalle malattie degli artefici dunque alla patologia del lavoro, da questa alla legislazione del lavoro a base scientifica, ecco la via in parte percorsa, in parte da percorrere con nuovi studi e con rinnovate discussioni»[25].

Un’analisi e un auspicio che acquistano ulteriore valore alla luce del referente cronologico: quel 1907 caratterizzato da un nuovo fermento di studi medici, in parte confluiti nei lavori del I Congresso internazionale per le malattie del lavoro, svolti sotto la presidenza del Pieraccini, e che videro tra i protagonisti Luigi Devoto (1864-1936): colui che incarnava perfettamente la figura del medico dei lavoratori, quale si era andata profilando nelle esortazioni di Hector Denis: «Suvvia [medici] scendete tra gli operai, affiatatevi con i lavoratori e farete opera utile…». Del resto, è nota la pratica didattica del Devoto, il quale era solito inviare i suoi studenti tra i vicoli di Genova per accertare la discendenza ambientale di talune patologie.

Sarà interessante osservare che si tratta di una prassi già adottata dal Ramazzini, il quale infatti, a sostegno delle sue riflessioni sulle condizioni dei vasai e dei ceramisti, precisava: «Per meglio svolgere il mio lavoro, cioè individuare le cause delle malattie dei lavoratori, ho dovuto visitare spesso le botteghe artigiane»[26].

Esiste, allora, un fil rouge che lega la metodologia ramazziniana a quella del Devoto; una relazione operativa compiuta nel segno di una comune ansia di tutela della salute dei lavoratori, seppure condizionata da fattori motivazionali diversi. Dalla causale opportunistica che abbiamo già riferito all’impegno del Ramazzini si distacca quella “altruistica”, pienamente sociale, del Devoto; ma, in fondo, i tempi come visto sono cambiati, tanta acqua è passata sotto i ponti e voler procedere a un confronto giudicante è uno sforzo pretenzioso.

Possiamo, di contro, affermare che se con Ramazzini si vennero gettando le fondamenta della medicina del lavoro, è con Devoto che se ne poté completare la struttura.

È a Luigi Devoto che si deve la nascita nel 1901 del primo corso di studi, presso l’Università di Pavia, dedicato alle malattie del lavoro; è lui a fondare, in quello stesso anno, la rivista “Il Lavoro” (tutt’ora operante con il titolo “La Medicina del Lavoro”), ed è lui il principale promotore dell’istituzione a Milano della “Clinica del Lavoro” (1910).

Ancora, è merito delle sollecitazioni del Devoto se il 9 novembre 1901 il ministro Guido Baccelli (1830-1916) inviò una circolare con cui si invitavano i prefetti e i diversi responsabili del mondo del lavoro a «difendere l’operaio dalle insidie morbigene», indicando tale cura come un «dovere dell’umanità»[27].

Sarà interessante sottolineare come proprio la nomina del Baccelli alla guida del Ministero dell’Industria, Agricoltura e Commercio venne saluta dalla classe medica sensibile ai temi sociali come auspicio di una politica di protezione della salute dei lavoratori: una speranza che trovava conferma nel conferimento nel 1902 della medaglia d’oro al Comune di Milano per il suo recente “Regolamento igienico”. Il commento all’evento pubblicato su “Il Lavoro” è in questo senso significativo, riportando le parole del Ministro, per cui la «conservazione dell’integrità del lavoratore… è fattore indispensabile del progresso delle industrie, della ricchezza e della gagliardia della nazione»[28]:

«In queste parole c’è un programma, c’è una bandiera che nessun ministro italiano ha mai prima d’ora compreso. Auguriamo all’onorevole Baccelli, clinico e ministro, che la politica parlamentare non gli abbia ad impedire l’attuazione delle misure protettive che, sono la naturale figliazione di quelle verità assiomatiche. Se non riesce a un clinico, a chi potrà mai essere dato, nel paese nostro, di proteggere igienicamente la classi lavoratici»[29].

È quasi commovente l’entusiasmo che traspare da un tale parere, destinato, almeno in parte, ad essere convalidato da una serie di disposizioni varate dal nuovo ministro, a cominciare dall’istituzione, il 19 dicembre 1901, di una Commissione formata da insigni studiosi e medici, incaricati di dare concretezza alle proposte di tutela dalle malattie professionali.

Punto di partenza dei lavori della commissione fu la riqualificazione del provvedimento del 1898 sugli infortuni, in funzione di una inclusione delle malattie professionale nella casistica degli infortuni sul lavoro, secondo il seguente parametro: «Sono malattie professionali da equipararsi agli infortuni sul lavoro, quelle malattie dovute in modo certo e nel caso concreto esclusivamente all’esercizio di un determinato lavoro industriale, che siano tali da portare la morte o, in modo transitorio o permanente, l’inabilità al lavoro»[30].

Purtroppo la proposta della Commissione, nonostante il sostegno dello stesso Baccelli, non trovò il consenso del Parlamento, motivando le parole di rammarico del Ministro: «non vi dissimulo un certo dispiacere, ed è questo: che si sarebbe potuti andare in prima linea oggi, mentre domani andremo al seguito di altre nazioni»[31].

Ciò, tuttavia, non segnò la capitolazione degli sforzi della Commissione, che vantava tra i suoi membri proprio Luigi Devoto, destinato a diventare, in quel giro di anni, il vero catalizzatore e organizzatore di quelle forze mediche impegnate a favore delle classi lavoratrici, meritevoli del plauso del Pieraccini:

«Il proletariato riconobbe negli studi della patologia del lavoro, un’arma di immediato conforto ed un mezzo di resurrezione collettiva. Ebbene, tutto questo fu opera recente di un gruppo di volenterosi che, senza grandi risorse e con forti personali sacrifici, dapprima quasi derisi o compianti, disseppellirono il vecchio, lo arricchirono di nuove conquiste raccolte in mezzo agli operai, nelle officine e nei campi per elaborarlo – quando fu possibile – nei gabinetti e nelle cliniche, e per formare alla fine una disciplina organica, la quale oggi, coi nuovi tributi che le arrivano da ogni parte civile, si afferma ben definita nel suo contenuto e oltremodo promettente nelle sue finalità umane»[32].

Un riconoscimento che preannuncia tempi nuovi, alimentati da un ottimismo che avrebbe indotto il Giglioli ad esclamare:

«L’Italia, dove pur nacque l’igiene del lavoro, tardi si è messa all’opera, in confronto di altre nazioni; ma, considerando quanto in breve tempo si è fatto, senza vana presunzione possiamo dire che oggi possediamo un fascio di forze attive ed un insieme di dati scientifici dai quali dovranno inevitabilmente derivare nuovi e più completi provvedimenti per la salute del lavoratore»[33].


[1] Cit. in F. Carnevale, A. Baldasseroni, Mal di lavoro. Storia della salute dei lavoratori, Bari1999, p. IX.

[2] Cit. in Ibid.

[3] Cit. in Ivi, p. 5.

[4] Ibid.

[5] Particolarmente attento alla salute dei lavoratori, ambiva a scrivere un trattato di medicina del lavoro, mai dato alla luce a causa della sua prematura morte. Tra i suoi contributi citiamo l’articolo Sulle malattie conseguenti all’esercizio delle varie professioni e sulla relativa igiene, pubblicato sul numero 2 del giornale “Il Politecnico” del 1839.

[6] G. Barzellotti, Della influenza della povertà sulle malattie epidemiche e contagiose come di queste su quella dell’importanza di migliorare le condizioni igieniche dei poveri onde toglier l’influsso reciproco ad entrambi e rassicurare la pubblica e privata salute della ricorrenza di questi morbi nella Gran Penisola, Disquisizione Accademica, Pisa 1839, pp.8-9.

[7] Ivi, p. 59. 

[8] E. De Betta, Sulle professioni considerate come causa di malattia, 1849, p. 31.

[9] Ivi, p. 19

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 20.

[12] Ivi, pp. 42-43.

[13] Cit. in F. Carnevale, A. Baldasseroni, Mal di lavoro. Storia della salute dei lavoratori, Bari1999, p. X.

[14] D.T. Casali, Ricordi igienici intorno ai più comuni mestieri, Pergola 1883, p. 221.

[15] Cit. in F. Carnevale, A. Baldasseroni, op. cit., p. 8.

[16] Notizie statistiche sul lavoro nei principali stabilimenti di Torino considerato sotto il rapporto della salute degli operai raccolte dal Civico Ufficio d’Igiene a tenore della circolare del ministero dell’Interno del 1° ottobre 1872, Torino 1873, p. 14.

[17] Ibid.

[18] Ivi, p. 11.

[19] Ivi, p. 15.

[20] L. Devoto, Una disciplina italiana e i trenta anni del suo giornale, in «La medicina del lavoro», 12, 1931, p. 13.

[21] G.Y. Giglioli, Le malattie del lavoro, note di patologia e d’igiene, omaggio agli abbonati de «Il Politecnico», Roma 1902, p. V.

[22] G. Pieraccini, Patologia del lavoro e terapia sociale, Milano 1906, pp. V-VII.

[23] Cit. in Gaetano Pieraccini medico del lavoro. La salute dei lavoratori in Toscana all’inizio del XX secolo, a cura di F. Carnevale, G.B. Ravenni, Firenze 1993, p. 43.

[24] G. Pieraccini, Patologia del lavoro e terapia sociale, Milano 1906, p. XIII.

[25] G.Y. Giglioli, Dalle “malattie degli artefici” alla “patologia del lavoro”, in «Il Ramazzini», n.1, Anno I, 1907, p. 48.

[26] B. Ramazzini, Opere mediche e fisiologiche, a cura di F. Carnevali, M. Mendini, G. Moriani, 2 vol., Caselle di Sommacampagna 2009, I, p. 49.

[27] Cit. in Gaetano Pieraccini medico del lavoro… cit., p. 52.

[28] Il Regolamento d’Igiene del Comune di Milano, in «Il Lavoro», 1, 1902, p. 144.

[29] Ibid.

[30] Commissione per lo studio delle cause e dei provvedimenti preventivi delle malattie professionali degli operai nelle industrie, in «Annali del Credito e della Previdenza», vol. 49, 1902, p. 13.

[31] Dibattito alla Camera dei Deputati sulla modifica della legge sugli infortuni del 1898, seduta del 16 aprile 1902, p. 567.

[32] G. Pieraccini, La Clinica del Lavoro, inaugurazione, in «Corriere Sanitario», 12, 1910.

[33] G.Y. Giglioli, Nuove ricerche e nuove conquiste nel campo della patologia e dell’igiene del lavoro (dal I Congresso internazionale di Milano al I Congresso nazionale di Palermo: 1906-1907), in «Il Ramazzini», n.12, 1907, p. 724.

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